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Il telero fu eseguito da Paolo Veronese per il refettorio del convento domenicano dei Santi Giovanni e Paolo in sostituzione di una tela di analogo soggetto di Tiziano bruciata in un incendio. Ultima di una serie di fortunate “Cene”, dipinte dal pittore a partire dagli anni cinquanta del Cinquecento, l’opera evidenzia gli straordinari raggiungimenti artistici di Veronese, qui capace di far coesistere sapientemente elementi di retorica teatralità con movimentati momenti di frizzante convivialità in una cornice architettonica monumentale. L’opera è anche celebre per essere stata al centro di un famoso episodio di “censura” artistica da parte del Sant’Uffizio che accusò il pittore di eresia per aver trattato senza il giusto decoro il tema dell’Ultima Cena, trasformandola in un banchetto e arricchendola di presenze inconsuete. In particolare, gli inquisitori interrogarono il pittore sulla scelta di inserire figure come il servo che perde sangue dal naso, il buffone nano con il pappagallo e persino alcuni alabardieri “armati alla tedesca”. In sua difesa Veronese ribadì, con ostentata ingenuità, il diritto del pittore ad usare la fantasia e a porre figure di “ornamento”, prendendosi la stessa licenza che è concessa ai poeti e ai “matti”, stando tuttavia attento a porre tutte le figure più fantasiose all’esterno dello spazio occupato da Cristo. Obbligato comunque ad emendare in tre mesi gli “errori” contenuti nel dipinto, di fatto già ultimato, il pittore optò più semplicemente per modificarne il soggetto, trasformando quella che doveva essere una Ultima Cena, in un Convito a casa di Levi, ovvero proprio in una scena di banchetto, esplicitando in primo piano il riferimento al quinto capitolo del vangelo di Luca.