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L’opera entra nelle collezioni delle Gallerie dell’Accademia nel 1821 con attribuzione a Mattia Preti, per essere successivamente assegnata a Jusepe de Ribera e, solo dal 1958, al pittore caravaggesco francese Valentin de Boulogne, secondo l’acuta intuizione di Roberto Longhi. Artista tra i più talentuosi nella nutrita schiera di “caravaggeschi” attivi a Roma tra secondo e quarto decennio del Seicento, Valentin è autore di raffigurazioni originali, connotate da un’atmosfera malinconica e da una sempre precipua indagine sugli “affetti”. La critica concorda genericamente nel ritenere il Martirio di san Bartolomeo uno dei primi numeri del catalogo del pittore francese per il suo carattere di straordinario verismo, evidente nella resa lenticolare della pelle e della carne, e quindi ancora databile al secondo decennio del XVII secolo. La tela è da mettere in relazione, prima ancora che con analoghe rappresentazioni di altri caravaggeschi stranieri attivi nell’Urbe negli stessi anni, piuttosto con il modello diretto del Merisi in Santa Maria del Popolo e con quello delle prove “caravaggesche” di Guido Reni, come la Crocifissione di san Pietro oggi alla Pinacoteca Vaticana. È indubbio comunque che Valentin mostra qui una peculiare – e non più ripetuta – attenzione alla resa lenticolare e un debito con il lucido realismo di Cecco del Caravaggio. Colpisce il contrasto tra la crudezza del dettaglio macabro della pelle recisa del santo, la sua espressione di patetica rassegnazione e la concentrazione dell’abile “macellaio” che esegue il suo compito con apparente noncuranza.